Uno studio condotto da Aretè per l’Unione Europea mette nero su bianco la crescita del mercato dei vini analcolici. Le previsioni parlano di una crescita a doppia cifra. Ma in Italia c’è un vuoto normativo sulla sua produzione.
Che piaccia o no, i vini analcolici e a bassa gradazione alcolica stanno conquistando una fetta sempre più consistente del mercato. Certo, qualcuno potrebbe storcere il naso ma i numeri non mentono. Vino, birra e liquori no alcol e low alcol hanno generato un business di circa 7,5 miliardi in Europa. Lo ho certificato nei mesi scorsi anche uno studio condotto da Aretè, azienda italiana specializzata nella valutazione di politiche per il settore agroalimentare, per l’Unione Europea. Si tratta quindi di una fetta di mercato importante con grandi margini di crescita. Anche se esiste una normativa europea relativa alla produzione di queste bevande, in Italia questo settore ancora non è normato. Ciò sta creando difficoltà ai produttori che vogliono inserirsi in questo mercato.
Il mercato europeo del no alcol
Il mercato delle bevande dealcolate è, come immaginabile, in gran parte appannaggio delle birre analcoliche, che, da diversi anni, vediamo sugli scaffali dei supermercati. E’ questo, quindi, un segmento con numeri abbastanza consolidati. Al contrario del vino che, come confermano i numeri, ha ampi margini di crescita. Il mercato dei vini analcolici ha toccato i 322 milioni di euro, quello dei distillati e liquori senza alcol è arrivato a 168 milioni. Si tratta di un settore coperto in gran parte da Spagna, Francia, Germania e Belgio. Se escludiamo la birra, questo segmento rappresenta ancora una nicchia, contribuendo a meno dell’1% del rispettivo mercato di riferimento. C’è però un dato da sottolineare: negli ultimi due anni ha registrato una crescita del 18% in un quadro di generale stabilizzazione o riduzione dei consumi di bevande alcoliche.
La situazione in Italia e le stime di crescita
In Italia, rispetto ad altri Paesi europei, i vini delalcolati o le alternative analcoliche ai liquori sono ancora molto poco diffusi negli scaffali dei supermercati.Lo studio Areté stima in circa 8 milioni di euro il mercato delle bevande alternative ai superalcolici nel 2021 (lo 0,1% del totale della categoria). Si tratta di cifre molto più basse di quelle, ad esempio, delle Francia, dove si è arrivati a 78 milioni. Cifre ancora più ridotte per i vini aromatizzati, rappresentati principalmente dalle alternative al Vermouth, con vendite stimate in meno di un milione. Infine, il vino (parzialmente) dealcolato ha un mercato nazionale stimato in circa 30 milioni, molto distante dal giro d’affari raggiunto in Francia (166 milioni) e Germania (69 milioni).
Nonostante i numeri ancora bassi, le previsioni parlano di una crescita a doppia cifra – più del 20% – nei prossimi anni. Il bacino di potenziali consumatori è, infatti, molto ampio. Si pensi, ad esempio, a chi non consuma alcolici per motivi religiosi e a tutte le nuove tendenze salutiste che tendono ad escludere gli alcolici dalla dieta.
La normativa europea
La normativa è uno degli aspetti più critici della questione, con impatto anche sul mercato. Ad oggi non esiste una definizione legale di “bevanda alcolica” nella legislazione alimentare dell’UE e il quadro normativo per i prodotti di questa categoria può variare in modo significativo da un Paese all’altro e tra prodotti diversi, così come la possibilità di commercializzare versioni alcohol free o a ridotta gradazione alcolica.
Queste differenze diventano particolarmente evidenti soprattutto in tema di etichettatura e di denominazioni di vendita autorizzate: mentre la possibilità di produrre (e commercializzare come tali) vini dealcolizzati è stata introdotta dalla più recente riforma PAC del 2021, ad oggi è vietato etichettare come gin, vodka o whiskey bevande che ne imitano il sapore ma che hanno un tenore alcolico ridotto.
Grande attenzione viene data nello studio proprio al tema dell’etichettatura, sul quale sarà necessario lavorare per garantire maggior chiarezza a consumatori e operatori, senza trascurare le istanze di chi vuole tutelare le produzioni tradizionali di bevande alcoliche, per le quali l’Europa, e in particolare l’Italia, è celebre in tutto il mondo. L’etichettatura di queste bevande pare essere lo snodo centrale della discussione. Ed è un tema sul quale l’Unione Europea può avere diversi strumenti di intervento, ad esempio fornendo regole comuni per l’uso di locuzioni quali “analcolico” o “a bassa gradazione” nella comunicazione di prodotto e cercando (assieme ai diversi portatori di interessi) soluzioni efficaci per descrivere queste bevande.
La normativa italiana
Più complesso, invece, il quadro normativo nazionale. La legge quadro del settore, il “Testo unico del vino” (Legge 238/2016) non contempla il vino senz’alcol e occorre individuare soluzioni normative per consentire alle cantine italiane la dealcolazione. Possibilità già prevista da altri Paesi Ue produttori. Ad oggi un’azienda italiana che vorrebbe commercializzare vino senza alcol dovrebbe rivolgersi ad un produttore estero. Va da sé che è necessario normare al più presto la possibilità di produrre vino senza alcol per non precludere ai produttori italiani un mercato che ha grandi margini di crescita.
Le conclusioni di Aretè
“Guardando all’UE nel suo complesso – spiega Enrica Gentile, Project Manager di Aretè per il progetto UE – il mercato delle bevande “low/no alcohol” diverse dalla birra è ancora in una fase iniziale di sviluppo in tutti i paesi membri, e le relative dinamiche sono ancora in grande evoluzione, ma le attese per i prossimi anni sono di crescite complessive a due cifre, in particolare per vino e alcoli. In questo contesto, sono di grande importanza l’innovazione tecnologica e di prodotto, ma anche la possibilità di avere un quadro normativo chiaro, a beneficio di consumatori e operatori”.