Il vino nell’antica Roma era sempre presente ai banchetti, ma non era simile a quello che conosciamo oggi
Vino nell’antica Roma: un’accessibilità non garantita a tutti
Dopo aver approfondito il ruolo giocato dal vino in epoca egizia e greca ci spostiamo nell’antica Roma, dove il prelibato nettare diventò gradualmente parte integrante dell’alimentazione del popolo romano. Inizialmente la consumazione del vino non era infatti concessa a tutti. Basti pensare che, prima della proclamazione dell’Impero Romano, le donne all’epoca, pur essendo abbastanza libere, non potevano bere la bevanda se non in modica quantità. Venivano addirittura additate come adultere soltanto per aver assaggiato il vino, che era riservato soltanto agli uomini che avessero compiuto trent’anni di età. In età imperiale poi le regole cambiarono e la donne poterono bere almeno il vino passito.
Vino nell’antica Roma: aneddoti di produzione
Si racconta che lo storiografo Marco Porzio Catone assegnò la vigna al primo posto tra le varie coltivazioni italiche. Le piantagioni specializzate nacquero inizialmente in Campania, alle pedici dei monti Petrino e Massico, da cui proveniva il celebre “Vinum Falernum”. I terreni di coltura erano costituiti da terrazzamenti drenanti, che consentivano di conservare l’adeguata dose di umidità e calore. Lucio Giunio Moderato Columella, scrittore agricolo latino, nel suo De re rustica spiega come venivano piantati vigneti con la distanza di circa dieci piedi tra un filare e l’altro, con vigneti uniti ad alberi o sostenuti da pali in legno. Un ettaro di vigneto poteva produrre più di 150 quintali di uva, con rese che arrivavano anche a 200-300 ettolitri per ettaro. I grappoli dopo la vendemmia si conservavano nelle ceste in cantina, e quelli immaturi servivano per produrre il vino degli schiavi.
Il vino nell’antica Roma, almeno fino alla tarda età imperiale, non era però così simile a quello che beviamo al giorno d’oggi. Ad esempio, quando risultava i viticoltori lo schiarivano con bianchi d’uovo montato a neve o latte fresco di capra. Per calibrare il grado alcolico mescolavano poi i vini leggeri con quelli più forti, o aggiungendo miele, estratti di erbe o aromi. Parliamo quindi di una bevanda totalmente diversa da quella che possiamo gustare ai giorni nostri.
I produttori edulcoravano alcune tipologie di nettare con sale, acqua marina e resina, mentre i vini prelibati non venivano trattati ma al massimo arricchiti con il defrutum. Si trattava di un mosto concentrato che alzava la gradazione di uno o due gradi alcolici. I viticoltori depositavano i vini migliori in anfore a doppia ansa chiamate “seriae”, impermeabili e attrezzate una punta che si conficcava nel pavimento. La rapida produttività dei vigneti locali andò a bloccare nel giro di poco tempo quasi totalmente le importazioni dei vini dalla Grecia agevolando il consumo della produzione locale.
Vino nell’antica Roma: lavorazione, produzione e commercio
Anche all’epoca era fondamentale indicare il luogo di provenienza del vino, il nome del produttore e addirittura quello del console in carica. I produttori mettevano infatti sempre un’etichetta con tutti questi dati sulle anfore. Poi, verso la fine del I° sec. D.C. , l’anfora fu sostituita dalla “botte”, usata poi per tutto il corso della storia moderna e contemporanea.
In epoca romana erano tanti i vini rossi di produzione italica in commercio, come il Calenum, il Falernum e il Massicum, tutti provenienti dalla Campania. Poi c’era il Caecubum, prodotto nel sud del Lazio. Spesso il vino della penisola italica veniva commercializzato e trasportato via mare. Per questi trasferimenti i romani usavano anfore di ceramica che potevano contenere circa una ventina di litri. I contenitori in questione disponevano di chiusura di chiusura ermetica con tappi di sughero sigillati con la pece.
Usanze e costumi del consumo del vino fra gli antichi romani
È opportuno specificare subito che il vino all’epoca era sempre presente sulla tavola imbandita per un banchetto. I vivandieri lo diluivano con acqua calda o fredda in base ai gusti dei commensali e, soprattutto, alla stagione. In piena estate, ad esempio, per far fronte alle alte temperature veniva annacquato con acqua freschissima presa direttamente alla sorgente.
C’era anche chi beveva il Merum, ovvero il vino puro, non tagliato e il preferito dagli ubriaconi. Tra i ceti sociali più bassi il popolo consumava il Circumcisicium, vino di scarsissima qualità ottenuto dalla torchiatura delle vinacce miste ad acqua. Alcuni medici dell’epoca sostenevano che l’aggiunta di acqua di mare andasse ad aumentare la componente lassativa del vino, stimolando i succhi gastrici e agevolando così la digestione.
In occasioni di banchetti importanti ricopriva un ruolo importante il “magister bibendi”, un vero e proprio arbitro che doveva astenersi dal consumare bevanda per stabilire quante parti di acqua, calda o fredda, erano da mescolare. C’erano anche i sommeliers dell’epoca, gli “haustores“, che si dedicavano a classificare i vini in base alle loro qualità e al loro utilizzo. Oltre che nelle case nel corso dei pasti, i romani consumavano il prelibato nettare anche al “thermopolium“, la classica e piccola osteria contraddistinta un bancone nel quale erano incassate grosse anfore di terracotta per contenere le vivande. I brindisi propiziatori erano comuni nella Roma antica. Si brindava infatti alla salute di un amico, di una persona importante o della donna amata. Ma i romani brindavano anche per onorare un defunto, o una divinità, o semplicemente a un innovativo progetto da realizzare, come si usa anche ai giorni nostri.