La Denominazione del Poggio ai Chiari

Poggio ai Chiari grappolo
Poggio ai Chiari grappolo

E’ da qualche tempo che, complici alcune commissioni lavorative, mi sorprendo ad interrogarmi circa l’influenza esercitata dell’acronimo della denominazione nel rappresentare l’identità di un determinato vino. Ebbene, nella mia pur breve frequentazione di questo mondo tanto stratificato quanto complesso poiché fatto, agito e interpretato da persone, sono arrivata alla conclusione che la denominazione finisce per rappresentare un’arma a doppio taglio per il produttore, un’arma da brandire spavaldamente e, certo, anche commercialmente ma anche un’arma con la quale potenzialmente ferirsi se le regole che ne scandiscono pratica e uso non sono chiare o, in ultima analisi, non tengono debitamente conto della specificità del territorio che pretendono di legiferare spogliando i produttori della loro identità a causa delle maglie, troppo larghe, in cui è imbrigliato il disciplinare.

Siamo appena fuori dalla città di Chiusi, un territorio la cui naturale vocazione vitivinicola può oggi fregiarsi di una ricerca durata anni la quale ha portato all’isolamento di 28 cloni di Sangiovese di cui 5 addirittura pre-fillosera. Si capirà quindi che, in questo specifico fazzoletto di terra a cavallo tra le denominazioni di Chianti e Montalcino, le regole del disciplinare siano invero poco condivisibili dal momento che prevedono, per il Chianti, l’utilizzo di vitigni che fuoriescono dal patrimonio genetico della zona così pervicacemente studiato e ricostruito nel tempo da Fabio Cenni, i cui vigneti di Sangiovese sono tutti iscritti a Chianti Docg pur essendo tutti i vini volutamente declassati a Igt.

Fabio Cenni
Fabio Cenni

È questa la storia di Colle Santa Mustiola, il teatro di una ricostruzione ampelografica e filologica perpetrata da Fabio Cenni che, per sua stessa definizione, si considera il detentore transitorio di un patrimonio, quello del Sangiovese che, in ultima analisi, appartiene nient’altro che al territorio stesso. Un territorio, il suo, punteggiato dai tre “chiari” dei laghi di Chiusi, Trasimeno e Montepulciano e la cui scacchiera geopolitica si intuisce già camminando lungo i filari di Vigna Flavia dalla quale si intravede, poco lontano, il confine tra il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio rappresentato nel reciproco sguardo che severamente si volgono ancora le massicce torri di Beccati Questo e Beccati Quello. Ed è proprio in questa linea di demarcazione, in un territorio avente invero come primigenio insediamento quello degli evolutissimi etruschi, che il suo vino diventa occasione e pretesto di una riflessione rivolta al patrimonio genetico come espressione della vocazione naturale di un’area geografica dove la vinificazione è sempre esistita.

È su queste basi, su questo patrimonio che nel 1980 Fabio Cenni edifica la sua storia, e lo fa su un terreno costituito da fondali marini su depositi alluvionali di sabbia, ciottoli e argilla mentre recupera, anche archeologicamente, le camere dei sarcofagi e le nicchie della tomba etrusca ipogea che traduce nella cantina della sua azienda, un luogo intriso di profondissima sacralità dove ora riposano le bottiglie del primo vino che ha visto la luce da questa storia, il nostro preferito: il Poggio ai Chiari che, a partire dall’annata 1992, giace qui tra urne cinerarie e ostriche millenarie incastonate nella superficie tufacea degli interni e dove tutta questa storia profonda e potente riaffiora e si riverbera nella traduzione empirica che, ogni anno, ne fa l’annata che l’ha generata.

La regola, è quella dell’immissione in commercio dopo 7 anni che constano di 40 giorni di macerazione di cui 25 a cappello sommerso e fermentazione malolattica spontanea quindi un invecchiamento di 36 mesi parte in barrique e parte in botti di rovere di Slavonia da 20 ettolitri cui segue un affinamento in bottiglia di 24 mesi. Il tutto restituisce un Toscana Igt che, per dirla coi francesi, “c’est le bon Dieu qui descend dans la gorge en culottes de velours” e che, nella versione 2006, irretisce in diverse fasi il degustatore. In primis, la fase analitica: quella in cui si riconosce uno spettro aromatico di grande Poggio ai chiari cantinacomplessità e lunghezza che induce a intrattenersi con le narici in olfazione, e in palpitazione, prede delle suggestioni più fitte, dalle eteree, sicuramente balsamiche, sicuramente marascate, fino alle more e alle ciliegie mentre si concede divagazioni agrumate, di tabacco e fumo. Ma poi sfuma, cambiando ancora fino a condurre per mano a una fase più sintetica e contemplativa dove ci ritroviamo irretiti in un gioco di sfumature e trasparenze ordite così finemente da rasentare l’imperscrutabile ma che conducono tutte a unico esito: la genuflessione.

 

Leila SalimbeniLeila Salimbeni è laureata in Semiotica a Bologna e, prima, in Linguistica a Roma. In entrambe le fasi della sua vita accademica cerca di indagare la relazione che lega il linguaggio al mondo fenomenico tanto da approfondire la questione della dicibilità di sapori e odori in una tesi che la condurrà esattamente dov’è adesso, a scrivere questa breve bio. Collaboratrice da poco meno di un lustro con Spirito diVino e autrice e curatrice di volumi di enogastronomia, ama il vino dalla tenera età dei tre anni quando, non proprio criticamente, soleva “degustare” di nascosto quel vino bianco macerato prodotto amatorialmente dal nonno materno che è un sapore che, a ben vedere, non ha mai smesso di ricercare.

Related Posts

Ultimi Articoli